Ho una grandissima gioia a scrivervi. Ed ho una grandissima paura. La gioia di comunicare con voi a cuore aperto. La paura di dire parole ripetute, parole che non sanno, non conoscono, non possono penetrare il mistero del prete, il suo infinito di grazia. Come si fa a parlare del prete? Vorrei dire: che ne sappiamo noi, laici, del prete? Penso all’approccio di tante nostre Messe domenicali. Tutta quella gente lì presente e il prete, solo, all’altare. Di fronte a lui tutti quei volti, senza gioia, senza comunione, come tanti precettati. E penso a tante nostre assemblee parrocchiali: c’è sempre qualcuno, a un certo punto, che si alza e va alla tribuna per proclamare tutte le sue insoddisfazioni. Poi, scompare. Non lo si vede più fino alla prossima opportunità di denunzia. Il prete sa che è condannato ad essere solo. Ho domandato a tanti che “vanno” in chiesa, che cosa si aspettano dal prete. Qualcuno mi ha risposto: “Il presbitero sia…….!”. Ed io sono rimasto atterrito. In questo “sia” c’era – non vorrei negarlo, tanto amore di Chiesa, ma anche tanta pretesa, tanta disattenzione, tanta comodità di delegare ad un uomo tutto l’eroismo della terra. Si vuole tutto da lui: che egli sia un uomo di cielo, con le ginocchia piegate, e che sia anche buttato nella strada, tra i poveri, a gridare giustizia, a rischiare l’infarto. Che egli sia semplice, ingenuo, una sorta di buon curato di campagna, e che, d’altra parte, sia un cofano di cultura, di dottrina, con tutte le specializzazioni applicate al suo mestiere. Che egli sia un uomo di tolleranza, di compromesso, un uomo di pace, amico di tutti (magari nemico dei nostri nemici!), e che sia anche un intransigente, un custode spietato delle verità immutabili. Il fatto è che la prima cosa da fare, il primo dovere da compiere, nei confronti del prete, è cercare di capire, essere attenti alla sua umanità. L’umanità di quest’uomo: un uomo come me, che può avere i nervi a pezzi, che può sentirsi non realizzato, che ha dei limiti come ciascuno di noi, che ha accettato le certezze e però partecipa all’agonia, alla problematica di questo nostro tempo. Quest’uomo che attualizza, nella liturgia, la follia dell’amore e che però sperimenta tante volte l’incapacità di saper tradurre, nella quotidianità della vita, della propria vita, la pazzia di questo amore. Quest’uomo che, un giorno, ha voluto essere celibe. E però arrivano al suo cuore tutte le inquietudini, i dubbi sull’utilità storica del suo celibato. Quest’uomo fatto per la comunione, e che però può soffrire, talvolta, la solitudine. Quest’uomo sconosciuto dalla stessa comunità dei cristiani, abbandonato, interrogato. I cosiddetti “fedeli” sono i primi a sostenere: “Ben gli stia!” Quest’uomo impiegato nel servizio, senza il rispetto dei tempi. Quest’uomo senza una sicurezza affettiva. E’ terribile l’assenza di amore, colpevole, delittuosa, della comunità. Lo dico in ginocchio: bisogna amare di più, comprenderci di più. perché l’amore è il futuro dell’uomo. E nell’uomo da amare si trova la via della storia di domani, dove sono le radici più profonde della nostra speranza..
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