Al liceo Umberto di Palermo nel grande piazzale su una parete è stato affisso uno striscione: “Lucia e Camrela sono nostre sorelle”. Il dirigente scolastico dell’istituto ha parlato ai ragazzi. Un’assemblea aperta. “Dobbiamo stare vicini alla famiglia”, ha detto.
Non l’abbiamo conosciuto Carmela, vittima della follia omicida, ma è come se fosse stata con noi da sempre. E’ nostra figlia.
Il nostro dolore non può essere quello dei genitori, dei familiari – infinitamente grande – o degli amici e conoscenti, di coloro che l’hanno amata, frequentata, apprezzata, è la pena di ogni uomo e donna che si sente parte di una comunità. Di più non possiamo, ma se la pena è declinata con comportamenti, parole, gesti idonei e coerenti, riusciremo a regalare a Carmela il dono di averci aiutato a salvare altre ragazze come Carmela o Lucia, la sorella, facendoci capire per tempo il pericolo, suscitando una reazione immediata ad ogni molestia, prepotenza, violenza.
Non ci sono colpe, sia chiaro, esterne all’assassino ed al suo delitto, solo la necessità, composta e consapevole, di reagire in modo appropriato ad ogni sopruso, anche alla semplice sfrontatezza, invece che subire per bontà, affetto o indulgenza.
L’atroce casualità di cui Carmela è rimasta vittima – nel tentativo di salvare la sorella Lucia–  rende ancora più insopportabile la tragedia e deve indurci a ripensare il delitto come una ferita inferta alla comunità, non solo alla famiglia, o un nuovo consueto episodio di intollerabile di violenza contro le donne.
Perché siamo arrivati a questo punto?
Per un tempo forse molto lungo si è trascurati i colpevoli di crimini efferati per puntare il dito contro la società, la comunità corrotta responsabile di tutte le nefandezze, malignità, malandrinerie, indifferenze, cinismi. Una giustificazionismo ideologico che ha finito con l’assolvere di volta in volta l’assassino, il criminale, trasferendo per intero sulla società le sue colpe.
La lucida ricostruzione dei fatti e delle concause del crimine ha preso il sopravvento, regalando all’autore del crimine una sorta di impunità morale se non addirittura una parziale impunità giuridica.
E’ stato un passaggio inevitabile, molto probabilmente, ad alla cultura assolutoria della provocazione. Una frustata a quel sentimento di “comprensione” che accompagnava il delitto d’onore in Sicilia, per fare un solo esempio. Il tradimento della donna (e non dell’uomo), l’adulterio, era punito e se la punizione avveniva per mano del “tradito”, la giustizia condonava larga parte della pena.
Dalla corresponsabilità della vittima, che se l’è voluta, si è passati alla corresponsabilità sociale. Ora non è più così, non deve essere più così. Gli alibi sono finiti.
Il contesto sociale, familiare, incide ancora sui caratteri essenziali della personalità di un giovane, ma il livello di omologazione sociale – nel bene e nel male – assegna una parte importante all’etica della responsabilità.
Il giovane che ha ucciso a coltellate Lucia e ferito gravemente la sorella, vittima designata, non è un mostro partorito dalla società, il suo bullismo feroce non è addebitabile ad alcuno, né alla famiglia né ai social network o ai giochi di ruolo, ma ad una scelta di vita, ad un aberrante senso di sé, alla sua idea del “possesso” della persona amata. Da punire  quanto il crimine commesso.
L’assassino ha in spregio la libertà altrui, pretende che il suo amore – è possibile chiamarlo tale se si uccide l’amata? – venga corrisposto comunque, non vede alternativa all’annientamento fisico dell’amata che lo rifiuta. O sei mia o non ci sei, insomma. Questa cultura costituisce di fatto le condizioni della predisposizione al delitto, al gesto estremo.
Il culto della propria personalità, il machismo, una sensibilità corriva, l’inaccettabilitàdell’affronto e della perdita, la diversità dell’amata – diversità culturale, sociale – sono elementi di comprensione da valutare e studiare, al pari della pietas dovuta ad ogni essere umano, non possono costituire – e non costituiscono più – motivo di indulgenze, plenaria o parziale.
Il perdono religioso richiesto ai familiari dopo ogni crimine efferato, al pari della vendetta sociale, ancora oggi preminente in molti Paesi di grande civiltà giuridica, devono rimanere fuori dal delitto e dalla sua punizione. La giustizia, non altro, va resa alla vittima, ancora prima che ai congiunti devastati dal dolore.
Nell’anno in corso cento donne in Italia sono state uccise dai loro mariti, amanti, fidanzati. In Sicilia si sono verificati due episodi di inaudita ferocia. L’uccisione di Lucia – due volte innocente, essendo morta per salvare la sorella, è il terzo caso in poco tempo.
Deve servirci per prestare attenzione alle malattie della nostra società, malattie che vanno curate con la conoscenza, la qualità delle relazioni, la cultura della vita e della tolleranza e, soprattutto con la giustizia. Che non assolve, ma educa.